Terzo Settore, PA e Social Procrement

da | Associazione riconosciuta, Forma Giuridica di Impresa, Varie

La crisi economica ha imposto nuovi modelli di sviluppo anche da parte delle amministrazioni. Il social procurement dovrebbe favorire l’assimilazione da parte delle amministrazioni europee di un modello di sviluppo di innovazione sociale del terzo settore. Una pratica che tuttavia nella nostra PA è ancora poco frequentata.

Il social procurement indica una pratica nella quale i parametri di sviluppo sociale sono affiancati a quelli economici per l’organizzazione e l’amministrazione delle risorse. Le amministrazioni sono ormai già da anni chiamate a rispondere sotto tale profilo dapprima con i protocolli GPP (Green Pubblic Procurement) e poi da quelli della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI). Ciò che si chiede, in Europa, è la sempre maggiore consapevolezza, da parte delle PA, degli aspetti sociali negli appalti pubblici.

I contratti pubblici infatti possono essere formalizzati tenendo conto di parametri sociali che permettano alle imprese del terzo settore di poter competere equamente pur non dovendo unicamente giocare al ribasso. La spesa per l’acquisto di beni o servizi da parte delle amministrazioni in Europa è stimata in oltre 100 miliardi di euro all’anno (ovvero tra il 7 ed il 9% del Prodotto Interno Lordo della UE) facendone, di fatti, i principali acquirenti di servizi e progetti sociali, mediante una capillare comunicazione istituzionale che comprende contratti pubblici, bandi di gara per servizi alla persona e gara d’appalto per servizi socio assistenziali.

Si tratta insomma di un’enorme quantità di denaro pubblico che tuttavia spesso viene gestito con criteri lontani da quelli del social procurement, ma determinando di volta in volta le imprese aggiudicatarie soltanto in base al principio dell’offerta più bassa.

Questa dissonanza concettuale tra l’emissione di bandi di gara per associazioni no profit (pensiamo ad esempio ai bandi cooperative sociali) e quindi ad un modo di fare impresa e sviluppo sociale che sia appunto al di fuori del profitto, e la regolamentazione di tali criteri in base all’offerta migliore, è da sempre stato il vaso di pandora per tutti gli affari clientelari più o meno trasparenti che si sono creati negli anni tra una parte del terzo settore e le amministrazioni. Gli scandali e le inchieste che di tanto in tanto gettano luce su alcune di queste vicende inoltre producono una ricaduta negativa sulle imprese “sane” del no profit che è enorme, generando nell’opinione pubblica scetticismo e dissenso verso un modello economico di sviluppo (che si contrappone a quello capitalistico) che invece dovrebbe essere maggiormente tutelato.

L’inserimento delle pratiche e dei parametri di valutazione dei bandi di gara del social procurement potrebbero quindi cambiare molti aspetti dell’economia del terzo settore. Le amministrazioni dovrebbero insistere maggiormente sull’inserimento di criteri di valutazione che possano tutelare e incentivare l’imprenditoria femminile, o le imprese del terzo settore che si rivelino particolarmente meritevoli inserendo nei bandi di gara per servizi alla persona, ad esempio, anche criteri che tengano conto della trasparenza di bilancio onlus o di temi etico sociali strutturali come le condizioni di lavoro (ma si potrebbe anche pensare ad una compilazione di un anagrafe delle onlus territoriale da parte dei Comuni) e non soltanto per la capacità o meno di offrire un determinato servizio ad un prezzo più basso.

Sebbene il parametro del “ribasso” stia finalmente scomparendo (seppur lentamente) in favore di un parametro che tiene conto del rapporto qualità/costo, il lavoro delle amministrazioni italiane in fatto di social procurement nella PA è ancora piuttosto basso. Il terzo settore non può che risentire di questo ritardo che è, come detto, il ritardo del suo principale acquirente.

In questo modo le imprese sociali che operano con le PA lo fanno sempre più sposando o  ricalcando modelli di sviluppo economici e sociali vecchi (ovvero gli stessi modelli finanziari che hanno prodotto la crisi) quando dovrebbero essere proprio le imprese del terzo settore gli attori di cambiamento economico e sociale anche all’interno della stessa PA, portando innovazione sociale, responsabilità sociale e finanza etica, insomma proprio quelle parole che in questi anni le amministrazioni europee stanno cominciando a conoscere e ad apprezzare, mentre qui da noi tutto questo accade ancora troppo poco. Correndo il rischio di rimanere in coda…

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